«Pensa che non hanno nemmeno l’aria condizionata. Io sono stata lì dentro mezz’ora e pensavo di morire, loro ci stanno almeno 8 ore al giorno. Dobbiamo ritenerci fortunate».
Così la mia amica Sandra mi racconta una delle sue ultime ispezioni in una fabbrica del Nord-Est. E mentre leggo dell’ennesima morte sul lavoro penso che, sì Sandra, siamo fortunate. Ma penso anche che non sia accettabile che in un paese che insiste a definirsi civile si continui a morire lavorando.
Una panoramica quantitativa
Sebbene dal dopoguerra ad oggi i decessi sul lavoro siano nettamente in calo, ormai da qualche anno l’Italia perde circa tre persone al giorno a causa di incidenti mortali avvenuti durante l’orario di lavoro e negli spostamenti da e verso il posto di lavoro. Numeri che dobbiamo continuare a considerare come un segnale di emergenza.

Nel 2020 gli infortuni con esito mortale sono stati 1.270, il 16,6% in più dell’anno precedente. Di questi, i decessi dovuti al Coronavirus sono stati circa un terzo del totale. L’Inail, infatti, suggerisce di considerare separatamente i dati registrati dall’inizio della pandemia e di compararli con cautela con quelli degli anni precedenti.
Per quanto riguarda i primi cinque mesi del 2021, confrontati con lo stesso periodo del 2020, i dati evidenziano un aumento dei casi di decesso in itinere, passati da 68 a 72, mentre quelli avvenuti durante l’orario di lavoro sono stati due in meno, da 364 a 362. Sono aumentati i decessi delle lavoratrici, da 38 a 44, mentre quelli degli uomini sono rimasti pressoché invariati, da 394 a 390 casi (Fonte Inail).

A livello europeo, secondo i dati pubblicati da Eurostat, l’Italia registra un’incidenza di poco superiore alla media, sebbene nel confronto si debba considerare che i criteri di raccolta dei dati variano da paese a paese (per esempio, non tutti considerano le morti in itinere).
Oltre i numeri
Oltre i numeri ci sono le persone, ci sono vite interrotte, drammi familiari, intimi, al cui confronto la statistica sembra una scienza volgare e offensiva. Ricordiamo alcune delle vittime degli ultimi mesi partendo dal caso emblematico di Luana D’Orazio, 22 anni, morta il 3 maggio mentre lavorava in una fabbrica tessile di Montemurlo, in provincia di Prato. Andrea Recchia, 37 anni, morto il 7 maggio in un’azienda di mangimi a Sorbolo, in provincia di Parma. Marco Oldrati, 52 anni, morto l’8 maggio in seguito a una caduta da un ponteggio in un cantiere di un centro commerciale a Tradate, in provincia di Varese. Camara Fantamadi, 27 anni, originario del Mali, morto il 25 giugno per sfinimento dopo una giornata di lavoro sotto il sole nei campi del Brindisino. Lorenzo Fino, 24 anni, morto il 29 giugno schiacciato da un trattore a Panzano, frazione di Greve in Chianti. Ignazio Sessini, 56 anni, trovato morto lunedì 5 luglio nel tritarifiuti di un impianto di trattamento di Villacidro, in Sardegna. Ernesta Boglio e Bruno Manuello, madre e figlio, 80 e 50 anni, morti l’11 luglio nel laboratorio della panetteria di cui erano titolari a Torre Mondovì, in provincia di Cuneo, intossicati da monossido di carbonio.
Non chiamiamole morti bianche
Le parole sono importanti. Quando parliamo di morti bianche ci riferiamo ai lavoratori morti a causa di incidenti avvenuti durante e per causa del lavoro che erano intenti a svolgere. Il colore bianco richiama l’innocenza, l’assenza di un soggetto che possa essere ritenuto responsabile di questi decessi. Come se morire lavorando fosse solo questione di sfortuna o colpa di un destino beffardo.
E invece no, la responsabilità c’è sempre e il più delle volte va cercata tra i datori di lavoro e in un diffuso atteggiamento di superficialità non solo nei confronti delle norme sulla sicurezza e sul benessere dei lavoratori, ma anche verso il ruolo della formazione.
Come porvi rimedio? Dal lato delle aziende controllando regolarmente le attrezzature e i macchinari, verificando che i luoghi e gli strumenti di lavoro siano adeguati e conformi alle normative vigenti, formando i dipendenti al corretto utilizzo degli strumenti e dei macchinari, ripetendo la formazione e verificando che sia stata recepita; dal lato pubblico perfezionando gli incentivi per le aziende virtuose, aumentando i controlli e le sanzioni in caso di violazioni e non conformità. L’Italia è un paese tristemente famoso per la scarsa attenzione alla manutenzione e per le tragiche conseguenze in termini di vite umane. Non possiamo più permetterci questa mentalità. Dobbiamo pretendere che le morti sul lavoro diminuiscano sempre di più, fino a diventare un’eccezione.