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Le prospettive salariali di un giovane neolaureato

A parità di mansione, la retribuzione percepita da un giovane neolaureato è inferiore non solo rispetto a quella delle generazioni precedenti, ma anche se comparata agli stipendi di ingresso nel mondo del lavoro dei coetanei europei. Si tratta di una caratteristica intrinseca della nostra economia oppure di una vera e propria svalutazione salariale?

Un altro effetto del mismatch? La difficoltà di ottenere una retribuzione che si consideri adeguata alle proprie capacità e competenze. La responsabilità, però, non è da attribuire solamente al fenomeno della sovra-istruzione.

Benvenuti nel mondo reale

Rispetto alla media europea, i giovani laureati italiani, a parità di mansione, hanno minori vantaggi in termini di salario. Secondo un’indagine della società di consulenza Willis Towers Watson che compara i valori degli stipendi di ingresso nel mondo del lavoro, i neolaureati italiani si collocano al quattordicesimo posto della classifica con un reddito annuo lordo di 28.827 euro, che si abbassa fino a 23.500 se si considera anche il potere di acquisto. Il 70% inferiore rispetto ai coetanei tedeschi e quasi il 30% in meno in comparazione ai francesi. 

Lo studio analizza anche il rapporto tra valore della retribuzione e livello di scolarizzazione. Anche in questo caso, mentre in Italia i giovani laureati possono ambire a guadagnare solo il 12% in più di un neodiplomato (divario simile anche tra laurea e dottorato al 13%), in Germania, invece, un neolaureato guadagna in media il 32% più di un diplomato, e in Francia un percorso di dottorato viene riconosciuto con un salario superiore del 43% rispetto alla laurea.

Per quanto concerne le prospettive di crescita a breve termine, mentre un neolaureato italiano dovrà aspettare in media 4-5 anni per vedere aumentata la propria retribuzione del 20-25%, in paesi quali Francia, Germania, Spagna e Regno Unito la stessa attesa si riduce a 2 anni.

Svalutazione strutturale

Non solo, negli ultimi dieci anni in Italia il salario di ingresso nel mercato del lavoro è diminuito di circa l’11%. Secondo la Banca d’Italia, oggi il reddito dei lavoratori tra i 19-30 anni è inferiore del 35% rispetto alla coorte 31-60, mentre negli anni Ottanta il divario era del 20% (Frate, 2017). Ciò fa intendere che, a prescindere dal livello della posizione e della mansione, il premio salariale che si vede corrispondere un giovane al suo ingresso nel mondo del lavoro è inferiore rispetto a quello percepito dalle generazioni precedenti

Colpa del cuneo fiscale?

Alcuni ritengono che la responsabilità della lenta crescita dei salari netti sia da attribuire all’entità del cuneo fiscale. A inizio 2020 l’Osservatorio CPI aveva in effetti messo in evidenza che il nostro cuneo fosse più elevato rispetto alla media dell’Area Euro – benché non fosse il più alto in assoluto – chiedendo che il Governo destinasse maggiori risorse alla riduzione della pressione fiscale. Eppure, questo dato non sembrerebbe un fattore di per sé sufficiente a spiegare il differenziale tra i redditi netti italiani e quelli degli altri Paesi europei. Infatti, anche i valori del cuneo fiscale di Francia e Germania sono superiori alla media, ma, come abbiamo già visto, in questi paesi il livello dei salari è mediamente più alto rispetto a quello italiano. 

La ragione della bassa crescita dei salari, quindi, non può essere ricercata solo nella pressione fiscale. Dobbiamo invece ricordare che da tempo, e in particolare dall’inizio degli anni Novanta, la quota dei salari sul PIL ha iniziato un inesorabile declino che si è accompagnato a un processo di precarizzazione del lavoro, sia dipendente sia autonomo. Non è un fenomeno solo italiano, ma un fardello comune a quasi tutte le economie avanzate. Per quanto ci riguarda, comunque, abbiamo la certezza che i nostri politici siano pienamente consapevoli della situazione, dal momento che proprio il Ministero dello Sviluppo Economico cita il basso costo del lavoro tra i dieci motivi che rendono l’Italia un paese vantaggioso in cui investire all’interno dell’Eurozona (Italian Trade Agency).

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