Ormai è chiaro, i social ci permettono di fare di tutto e di più:
parlare con gli amici, informarci, fare acquisti e addirittura trovare lavoro!
Come?
Per prima cosa puoi farti un bel profilo su Linkedin (il social professionale per eccellenza), caricare il tuo cv e candidarti alle offerte di lavoro che ti interessano. Oppure preferisci usare Facebook?
Eh già, Mark non si da pace e ha deciso di inserire una bella sezione “offerte di lavoro” anche qui, così non hai scuse per uscire dalla sua piattaforma.
Anche Instagram, Twitter, TikTok e compagnia cantante possono essere sfruttati a tal scopo. Negli ultimi anni abbiamo visto come condividere le proprie conoscenze o passioni tramite post, foto o video può essere, a volte, molto più efficace dell’invio compulsivo di curriculum!
Il ruolo dei social è evidente a tutti e anche realtà come Adecco o Informagiovani danno suggerimenti su come sfruttare al meglio i social network per trovare lavoro. Consigli che poi confluiscono sempre in un unico punto: occorre curare la propria immagine e, di conseguenza, la propria reputazione online.
Attenzione! Può sembrare un aspetto banale ma non lo è affatto!
Sai per quale motivo?
Perché il tuo potenziale datore di lavoro non si limita a dare un’occhiata al tuo cv ma cerca il tuo nome su internet e guarda cosa pubblichi, come ti esprimi, come interagisci con gli altri, se c’è coerenza tra quello che hai scritto sul curriculum e quello che dice il tuo profilo digitale etc.
Ma ti dirò di più. Oggi si aggira sul web il social recruiter, cioè un selezionatore che utilizza i canali social per trovare potenziali candidati con lo scopo di reclutarli.
Bisogna ammetterlo: tutto questo è magnifico e preoccupante al tempo stesso. Da una parte i social hanno aperto ai giovani un’altra strada per entrare nel mondo del lavoro, dall’altra però il fatto di essere selezionati e giudicati per quello che si pubblica sui propri profili può non essere sempre d’aiuto.
Un buon recruiter sa bene che deve tener conto solo di quelle informazioni che consentono di stabilire se il potenziale candidato è adatto o meno a quella posizione lavorativa, d’altronde l’articolo 8 dello Statuto dei Lavoratori vieta “al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore.”
Nonostante il divieto però ci sono ancora situazioni nelle quali si viene scartati proprio per quei fattori che non dovrebbero essere presi in considerazione, come ad esempio il proprio orientamento sessuale.
Attraverso una simulazione l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha rilevato che “i candidati omosessuali hanno 1,5 possibilità in meno di essere convocati per un colloquio di lavoro rispetto ai loro omologhi eterosessuali quando il loro orientamento sessuale emerga da attività di volontariato o esperienza lavorativa presso un’organizzazione di uomini o donne omosessuali”.
Questa situazione è presente anche nel nostro Paese, basta che nel cv ci sia qualche informazione come “volontariato presso l’Arcigay” e le probabilità di essere chiamato per un colloquio diminuiscono.
Se si viene scartati per una frase scritta su un foglio di carta, non è lecito pensare che lo stesso accada per le foto, i post o i video pubblicati?
A questo punto sorge un dilemma: fare attenzione a ciò che si pubblica per avere più chance di trovare un’occupazione o esprimersi liberamente con il rischio di non essere selezionati e dunque non trovare lavoro?
Eppure il lavoro e la libertà d’espressione sono diritti ugualmente riconosciuti dalla nostra Costituzione, perché dobbiamo rinunciare a uno dei due quando dovremmo avere entrambi? Non sarebbe giunta l’ora di essere giudicati per ciò che conta davvero per svolgere un lavoro, cioè le nostre competenze?