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Non sono concorsi per giovani

Non passa mese senza che qualcuno dei nostri ministri ribadisca quanto sia importante creare nuove opportunità per i giovani laureati e disincentivare la “fuga di cervelli”. Com’è possibile allora che molti concorsi premino l’anzianità invece che le competenze?

“Provate a immaginare questo. Un giovane laureato con il massimo dei voti, che dopo la laurea (…) ha deciso di proseguire gli studi con una specializzazione. Immaginate che abbia vinto anche una borsa di ricerca e magari, nei ritagli di tempo, abbia partecipato anche a un master. 

Immaginate, insomma, che sia uno dei quei trentenni iper-formati che, a parole, ogni governo dice di voler trattenere in Italia evitando che vadano a cercare lavoro altrove perché nel loro Paese tutte le porte sono chiuse. Ora provate a immaginare che questo stesso ragazzo voglia entrare nella Pubblica amministrazione tentando un concorso.” (Il Sole 24 Ore).

Gli spoiler sono insopportabili, ma avrete capito tutti l’epilogo: la favola del giovane iper-formato finisce qui. O meglio, finisce quando dalla teoria e dalle buone intenzioni si passa alla pratica, vale a dire quando vengono stabiliti i criteri di selezione dei candidati.

Succede regolarmente: il Sole 24 Ore ha citato il concorso per il profilo di “Direttore, da inquadrare nell’Area funzionale Terza”, Open ha parlato invece del concorso per il profilo di “Cancelliere esperto, da inquadrare nell’Area funzionale Seconda”. In entrambi i concorsi banditi dal Ministero della Giustizia (guidato da Bonafede, del M5S), le modalità di attribuzione dei punteggi sono a dir poco allucinanti e la morale è chiara: “Non sono concorsi per giovani”.

Nel primo caso, “la somma dei titoli post laurea non può superare i 7 punti. Come dire, il ragazzo laureato con 110 e lode e iper specializzato non potrà avere più di 12 punti. Cosa viene premiato allora? L’anzianità. Un dipendente del ministero della giustizia ha potuto contare su 4 punti per ogni anno di servizio tolti i primi cinque; un magistrato onorario su 3 punti per ogni anno di servizio sempre tolti i primi cinque; e così un avvocato iscritto all’ordine. Più sei avanti nell’età, più esperienza hai maturato, più punti ricevi” (Il Sole 24 Ore).

Nel secondo, “come titolo di studio, è richiesto solo il diploma di maturità, non la laurea: e fin qui nulla di strano visto che per i cancellieri non è mai stata prevista la laurea. Peccato, però, che non ci sia alcuna differenza nella valutazione del possesso di un diploma o di una laurea. Anzi, chi si è laureato con 100 – quando il massimo non era 110 e lode – finisce pure per ottenere un punteggio più basso dei diplomati con 60 su 60” (Open).

Insomma, pare che per vincere questi concorsi e ottenere il posto il merito e le competenze non servano a nulla

Il paradosso è che la nostra pubblica amministrazione, in cui l’età media dei dipendenti supera i 50 anni, di quelle competenze ne ha disperato bisogno. Siamo il paese con le competenze digitali più basse d’Europa, le nostre istituzioni si trovano inesorabilmente indietro rispetto alla digitalizzazione, le strumentazioni utilizzate sono lente ed obsolete. Eppure, nello stesso momento in cui l’insoddisfazione dei cittadini cresce ed essere al passo coi tempi diventa sempre più importante, non solo non si sta facendo nulla per intervenire, ma si fa di tutto per mantenere l’immobilità delle cose. 

Questi concorsi ne sono la prova: invece di puntare sull’assunzione di giovani preparati e competenti anche dal punto di vista digitale, la tendenza è quella di preferire sempre e comunque la generazione precedente. È chiaro che l’esperienza è sicuramente importante in ogni mestiere, ma deve essere considerata in modo bilanciato rispetto al merito. Ad oggi, invece, i giovani sono semplicemente tagliati fuori in molti concorsi pubblici. 

Tutto questo va a cozzare con le belle dichiarazioni dei nostri ministri, che non mancano di ribadire quanto siano determinati a creare nuove opportunità per i giovani laureati e a stanziare importanti fondi per disincentivare  la “fuga di cervelli”.

Ma è evidente che quando si parla di giovani, parole e fatti spesso non coincidono.

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