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Maternità e carriera: percorsi incompatibili?

Mentre la preoccupazione per il calo delle nascite continua ad assillare il nostro paese, solo 1 madre italiana su 2 lavora. E invece di intervenire concretamente per agevolare le famiglie, le istituzioni incolpano le nuove generazioni “senza valori”.

Come ogni anno, dicembre è tempo di bilanci: tra tutti, quello della natalità alza sempre un bel polverone nel nostro paese. Dopo i dati scoraggianti del 2019 (20.000 nati in meno rispetto al 2018) siamo in attesa dei dati 2020, che verranno pubblicati a fine anno. Nel frattempo si parla già del 2021, in cui secondo i demografi nasceranno meno di 400mila bambini, anche a causa della pandemia.

Sarebbe il minimo storico delle nascite degli ultimi 150 anni. Diverse istituzioni hanno lanciato l’allarme, sostenendo che con questo calo di popolazione non c’è futuro per il paese

Questione Covid a parte, perchè in Italia si fanno sempre meno figli? È colpa delle nuove generazioni “senza valori”? O del fatto che “al giorno d’oggi i giovani sono egoisti e pensano solo alla carriera”? 

Non è che magari ci sono oggettive difficoltà nel fare famiglia? Siamo stanchi di venire additati come bamboccioni, viziati, poco inclini ai legami stabili e di sentirci dire almeno una volta l’anno “Io alla tua età…”

Invece è proprio questo quello che succede, ma non solo nelle nostre case, addirittura nei documenti ufficiali dello stato. Probabilmente ricordiamo tutti quell’imbarazzante e alquanto inappropriata campagna denominata “Fertility day” di qualche anno fa. Contestualmente è stato pubblicato anche il Piano nazionale per la fertilità, delle cui 137 pagine riportiamo qui un emblematico estratto (p. 31):

« I giovani tendono, ormai, a procrastinare le scelte decisive. Mutano i ruoli, le fasi, i tempi di ogni età, con conseguenze sociali, biologiche e di sostenibilità ancora globalmente da esplorare. Da un punto di vista psicologico sembra diffuso un ripiegamento narcisistico sulla propria persona e sui propri progetti, inteso sia come investimento sulla realizzazione personale e professionale, sia come maggiore attenzione alle esigenze della sicurezza, con tendenza all’autosufficienza da un punto di vista economico e affettivo. 

Tale disposizione, spesso associata ad una persistenza di un’attitudine adolescenziale, facilitata dalla crisi economica e dalla perdita di valori e di identificazioni forti, si riflette sulla vita di coppia e porta a rinviare il momento della assunzione del ruolo genitoriale, con i compiti a questo legati. Nelle donne, in particolare, sono andati in crisi i modelli di identificazione tradizionali ed il maggiore impegno nel campo lavorativo e nel raggiungimento di una autonomia ed autosufficienza ha portato ad un aumento dei conflitti tra queste tendenze e quelle rivolte alla maternità. »

Insomma sembrerebbe proprio che la colpa sia in qualche modo delle donne, che egoisticamente si sono allontanate dal loro ruolo «tradizionale» di madri, preferendo l’autorealizzazione. 

Ma non è vero che i giovani italiani non vogliono avere figli, i dati lo confermano: solo il 5% di chi non ne ha lo fa per scelta*. L’altro 95% invece, prima rinvia e poi rinuncia. Perché diciamolo, il problema non è tanto la «persistenza di un’attitudine adolescenziale», ma l’impossibilità concreta di farsi una famiglia.

Assenza di tutele e di sostegni concreti ai nuclei familiari, difficoltà a trovare un lavoro stabile, costi esorbitanti degli asili. Ma l’aspetto più grave in tutto questo quadro è che, nonostante i figli si facciano in due, è sempre la donna a sacrificarsi

Mentre nella vita lavorativa dell’uomo diventare genitore è un evento irrilevante, per la donna cambia tutto. Se si vuole diventare madri in Italia bisogna prima di tutto essere pronte a rinunciare alla propria libertà e a venire giudicate per ogni singola scelta. Si potrebbe perdere il lavoro o essere in difficoltà nel trovarne un altro. Si potrebbe essere costrette a licenziarsi per gestire i figli, in modo da preservare il reddito più sostanzioso (che nella maggior parte dei casi è quello dell’uomo) diventando a tutti gli effetti economicamente dipendenti dal proprio compagno. Lo stipendio delle donne nella maggioranza dei casi già non permette loro di vivere, figuriamoci di mantenere un figlio da sole. A completare il quadro, i pregiudizi retrogradi e patriarcali che ancora (e purtroppo) sono così diffusi nella nostra società: scegli la carriera? Sei una donna a cui manca qualcosa, oppure una madre assente ed egoista. Scegli la famiglia? Sei una fallita. 

D’altronde, in un paese in cui il  63,5% delle persone riconosce che può essere necessario o opportuno che sia la donna a sacrificare parte del suo tempo libero o della sua carriera per dedicarsi alla famiglia**, la parità di genere sembra sempre più lontana.

Insomma, pare che nel nostro paese fare la madre ed avere una vita professionale siano due percorsi incompatibili. Infatti, solo il 57% delle madri ha un lavoro* (per la cronaca, per le donne senza figli il tasso di occupazione sale al 72%.)

Il punto è che per avere un figlio, è innegabile, un lavoro serve. Ma come la mettiamo col fatto che lo stipendio medio femminile italiano resta uno dei più bassi d’Europa, ed è mediamente inferiore a quello degli uomini? Aggiungiamoci che solo il 31,3% delle donne ha un lavoro a tempo indeterminato (contro la media europea del 41,5%) e già la situazione sembra più chiara. 

D’altronde, i lavori che impiegano solitamente donne sono tendenzialmente più precari, meno tutelati e soggetti a part time o contrattazioni fantasiose (insegnanti, guide turistiche, educatrici…), e passare svariati mesi di stop forzato per la maternità potrebbe significare per molte la fine della propria vita professionale

Infatti, non esistendo una rete di aiuti accessibili (basti pensare che gli asili nido hanno la possibilità di accettare solo il 25% dei bambini) una grossa fetta delle donne italiane è costretta a lasciare il lavoro alla nascita del primo figlio o a richiedere il part time (in quest’ultimo caso è il 32,4% delle neo-mamme*). 

E non finisce qui: un altro aspetto importante da considerare è la disparità nell’ambito del lavoro domestico, che è ancora in gran parte in mano alle donne. L’81% delle donne italiane si occupa giornalmente delle faccende domestiche*, contro il 18% degli uomini.

Anche per questo, solo 1 donna su 4 ha tempo libero durante la settimana per coltivare i suoi hobby. E anche per questo, 1 donna su 10 (ma nel sud Italia si parla del doppio) non ha mai lavorato per stare dietro alla famiglia*.

È evidente che la situazione attuale delle giovani coppie è tutt’altro che adatta a crescere un figlio. Uno stipendio solo non basta a coprire tutte le spese, e tenerne due sembra impossibile. A queste condizioni avere un bambino (o peggio, più di uno) è impensabile. Senza dimenticare che per chi ha un elevato titolo di studio e passa diversi anni in università l’attuale mercato del lavoro non permette l’indipendenza economica prima del 35 anni, momento in cui la fertilità si abbassa notevolmente. Cosa succede invece alle donne con impieghi di alta responsabilità? Sempre secondo l’Istat, più della me rinuncia alla maternità per impossibilità a conciliare le due cose.

Se si cerca lavoro poi, non c’è giovane donna a cui non sia capitato di sentirsi chiedere al colloquio se vuole avere dei figli. Domanda inopportuna e discriminatoria, oltre che illegale. 

In conclusione, è interessante vedere che secondo la società le donne italiane dovrebbero essere per prima cosa madri, ma senza che sia dato loro nessun tipo di sostegno. Allo stesso tempo dovrebbero anche avere un buon lavoro, ma con il rischio di essere penalizzate se dichiarano di volere dei figli. Due modelli in contraddizione che sembrano non aver nessun collegamento tra loro. 

In un sistema sano e giusto la maternità dovrebbe essere un vantaggio per l’intera società, ma è evidente che siamo ancora molto lontani. 

*dati Istat

** dati Censis

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