La prospettiva di lavorare in un museo, in una biblioteca, in un archivio o in un altro ente o istituto culturale riscuote tendenzialmente molta popolarità. Nel nostro paese non si può certo dire che questi luoghi scarseggino: con oltre 50 siti Unesco e migliaia di enti culturali, l’Italia sembrerebbe proprio il posto più adatto per avviare una carriera nel settore del patrimonio.
Effettivamente esistono decine di corsi universitari, master, scuole di specializzazione, accademie e percorsi formativi inerenti al settore: Storia dell’arte, Biblioteconomia, Archeologia, Didattica museale, Archivistica, Antropologia, Curatela museale, Marketing culturale, Turismo… pochi altri ambiti possono vantare un così vasto panorama formativo.
Alla classica domanda “E dopo cosa farai…?” molti studenti sostengono di volersi inserire in un museo o in un ente culturale per mettere a frutto le competenze acquisite in anni di studio e stage curriculari. Peccato che molto spesso si ignora come effettivamente funzioni il mercato del lavoro nel settore della cultura, e anche tra gli aspiranti professionisti aleggi uno spesso alone di disinformazione. A volte nemmeno la sezione “sbocchi lavorativi” dei depliant universitari sembra avere le idee chiare.
In linea teorica, nel nostro paese ci dovrebbe essere un grande bisogno di queste figure professionali. Ma allora perchè a trovare lavoro si fa così fatica e molti scappano all’estero?
Veniamo al punto doloroso: in Italia, di questa incredibile varietà di figure professionali sfornate ogni anno dalle università, non c’è la minima richiesta. Le necessità del mercato sono molto lontane dall’offerta formativa: i musei e le gallerie d’arte italiane non assumono (delle gallerie in particolare ne avevamo parlato qui) e al massimo possono offrire stage e tirocini, ma raramente questi poi si tramutano in un vero impiego.
Non perché non ci sia lavoro (anzi, conosciamo tutti i nomi di siti abbandonati e di musei chiusi per mancanza di personale) ma per una serie di ragioni soprattutto strutturali del settore. Il risultato finale è che una buona parte dei neolaureati in materie umanistiche è costretta a reinventarsi e fare altro, oppure a spostarsi di centinaia di chilometri.
La verità è che in Italia, patria della cultura e del patrimonio, dei beni culturali non interessa un fico secco. I fondi ridicoli, lo stato di incuria delle strutture e la normativa a dir poco confusionaria parlano chiaro. Un paradosso, se pensiamo che il museo è definito dalla legge italiana un servizio pubblico essenziale al pari di trasporti e ospedali.
Ma di fatto i professionisti impiegati nel settore culturale sul totale dei lavoratori italiani sono soltanto il 3%, meno che in Lituania e in Estonia. Di questi, i laureati sono meno della metà (in questo in Europa siamo subito sotto a Repubblica Ceca e Slovacchia), e l’età media del personale è di 55 anni.
Le sedie vuote al MiBACT (Ministero per i Beni Culturali e il Turismo) sono il 32% dei posti in organico, e ogni anno va sempre peggio. Con Quota100 nella pubblica amministrazione sono iniziati i pensionamenti di massa: 90mila nel 2019, saranno 83mila nel 2020. Addirittura si stima che nel 2021 i pensionamenti supereranno i dipendenti in servizio.
Manca da svariati anni il turnover generazionale: tutto il settore sta invecchiando e ne consegue un’inesorabile obsolescenza.
Il secondo grosso problema è appunto l’enorme ritardo di innovazione: sembra che in quanto a rinnovamento dei servizi e modalità di fruizione la maggior parte dei musei italiani sia rimasta ferma al secolo scorso. Secondo l’Istat soltanto nella metà delle strutture c’è qualcuno in grado di dare informazioni in inglese, solo 1 museo su 4 utilizza una biglietteria online e a malapena il 2% ha digitalizzato le collezioni. In quanto a promozione online, solo il 40% ha un sito web e la metà è attivo sui social (e ci sarebbe anche da chiedersi se avere un profilo social nel 2020 sia considerato innovativo).
Tutto ciò contribuisce a rendere i nostri musei meno attrattivi rispetto alle realtà estere, che in molti casi offrono visite virtuali e podcast di promozione delle raccolte.
E’ chiaro che queste due criticità siano indissolubilmente legate: il ritardo di innovazione dipende in gran parte dal fatto che non c’è personale in organico con competenze informatiche, digitali e linguistiche adeguate.
Ma abbiamo visto che questi professionisti in Italia esistono, e sono anche parecchi: l’ampia varietà di percorsi universitari esistenti ne è una chiara evidenza. Dall’altra parte, manca l’interesse a individuarli come delle risorse ed assumerli. Un po’ per mancanza di fondi, un po’ per l’eccessiva prudenza che lo Stato riserva all’innovazione e alle nuove tecnologie. Insomma diciamolo, si è mai sentito un concorso per Social Media Manager o per Web Master nella pubblica amministrazione?
Decisamente no. E tutti i neolaureati, dopo aver scritto un’intera tesi sulle nuove frontiere della fruizione museale o sul marketing culturale, si ritrovano catapultati in un mondo che queste cose non le ha mai sentite nominare.
Perché permettiamo che da una parte ci sia una mancanza generalizzata di competenze aggiornate e approfondite, e dall’altra tantissimi giovani laureati con master specialistici e percorsi avanzati chiusi in casa a mandare cv ai supermercati?
Qualcuno che trova buone opportunità esiste, ma non bisogna nascondere che sia molto difficile. A fronte di migliaia di laureati in Arte e Archeologia, i più finiscono per abbandonare il settore e dedicarsi ad altro. I determinati tirano avanti con lavoretti occasionali e contratti a progetto. L’unico modo per trovare immediatamente un’occupazione nel settore è essere disponibili a lavorare gratis. Ne avevamo parlato a fondo in un altro articolo: non pretendere una retribuzione per un lavoro che richiede competenze specialistiche e anni di studio sembra l’unica via per rendersi attraenti all’attuale mercato del lavoro culturale.
Ma come, per lavorare nei musei non basta portargli il curriculum!? No, nulla di più sbagliato. Ormai i musei non assumono più, ma appaltano i servizi a cooperative ed associazioni terze che si occupano di assumere gli operatori. Il problema di fondo però, è che per tutte queste figure iper-specializzate (curatori, antropologi, esperti di didattica museale ecc…) non esiste una normativa che ne definisca i requisiti e le mansioni. Insomma, sembra che neanche al Ministero si sappia cosa facciano.
Il triste risvolto è che non essendoci requisiti, nella teoria chiunque potrebbe svolgere questi lavori. Ed ecco apparire bibliotecari senza laurea, neodiplomati nei musei che si occupano di visite guidate e comunicazione, archeologi della domenica che operano su siti tutelati. Tutti inquadrati con contratti miseri e senza diritti. Il tutto perfettamente legale, non essendoci una legge che lo vieta o una contrattazione collettiva come accade invece per altre professioni. E ci troviamo nell’assurda situazione in cui avere una laurea specialistica non rappresenta motivo di vantaggio, dal momento che ci sono altri che possono fare lo stesso lavoro con un qualsiasi diploma.
Se l’idea invece è quella di entrare al MiBACT o nei musei statali, l’unica cosa da fare è partecipare ai concorsi pubblici. Peccato che questi fantomatici concorsi vengano solennemente sbandierati, ma poi posticipati o non pervenuti.
A titolo di esempio, nel 2019 si parlava di 5400 assunzioni previste entro dicembre. A metà 2020 non solo non è ancora stato assunto nessuno, ma dei vari concorsi attesi ne è stato pubblicato solo uno.
Di questo unico bando se ne è parlato molto: per poco più di mille posti quasi 210mila domande, prima prova selettiva svolta a Roma alle 8.30 del mattino i primi giorni di gennaio (rendendo così impossibile la partecipazione di svariate migliaia di persone) e poi la sospensione del concorso a causa del Coronavirus. Insomma, dopo un anno dalla pubblicazione del bando i 7500 candidati selezionati a gennaio scorso sono ancora in attesa di sapere quando sarà la prova scritta.
Per quanto la tendenza a ricorrere a tempistiche eterne rappresenti una delle caratteristiche più famose della nostra pubblica amministrazione, tutto ciò non è ammissibile. E non è nemmeno ammissibile che al di fuori del settore nessuno sia a conoscenza di queste situazioni.
Nei beni culturali la discrepanza tra aspettative e realtà è abissale. Quello che è peggio è che i rari professionisti che trovano un impiego sono pagati pochissimo e sono senza tutele, dal momento che la normalità è rappresentata da contratti part time, a chiamata, a progetto che non danno sicurezze né stipendi dignitosi.
Eppure continuano a nascere ogni anno nuovi interessanti corsi di laurea, che promettono di formare “professionisti di elevata qualificazione in grado di accedere a funzioni e ruoli di alta responsabilità presso soprintendenze e musei, fondazioni, aziende e imprese pubbliche o private e associazioni e istituti culturali.”
Ma nel mercato odierno, i fondi sempre più ridotti rendono molto difficile la creazione e il mantenimento di questi posti di lavoro. Non c’è il turnover necessario e si arriva a ricorrere ai volontari o a contare che i direttori dei musei lavorino gratis.
Noi di Generazione Zero siamo convinti che dare visibilità a queste situazioni sia il primo passo per cambiare le cose.