Si sa, piove sempre sul bagnato. Non bastavano i tagli degli ultimi anni, i fondi sempre più ridotti, le chiusure obbligate di biblioteche e musei per mancanza di personale e il disinteresse generalizzato per il settore da parte degli organi politici. No, ci si doveva mettere pure una pandemia a minare la già fragile situazione degli enti culturali italiani.
Nei musei, a causa del lockdown, si parla di 78 milioni di euro di mancati introiti e di quasi 19 milioni di visitatori previsti che non sono mai arrivati. Una vera battuta d’arresto, dopo 10 anni in cui il saldo era stato più che positivo: si conta un + 46% di turisti dal 2010 al 2019.
Questo perché l’Italia vantando importanti città d’arte, più di 50 siti UNESCO e svariate migliaia di musei e siti archeologici, è una delle mete turistiche e culturali più gettonate al mondo.
Eppure, i nostri investimenti statali nel settore sono i più bassi d’Europa.
Com’è possibile? Invece di rappresentare una priorità, una risorsa da cui trarre importanti benefici e guadagni, alla cultura sono destinati solo gli avanzi (quando ci sono).
Il risultato lo conosciamo tutti: incredibile carenza di personale, musei che chiudono, il volontariato come strumento per tenere in piedi i servizi, scarsa innovazione, laureati in Storia dell’arte che invece di mettere a disposizione le proprie competenze lavorano al supermercato.
Da diversi anni si parla della necessità urgente di rivoluzionare l’intero sistema e di una manovra di assunzione di nuovo personale giovane e competente.
Quello che manca è “l’innesto di giovani” di cui ha tanto parlato il Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. Professionisti con una formazione specialistica e competenze aggiornate che vadano a contribuire all’innovazione dei servizi.
Di tutti questi buoni propositi se ne parla da anni, ma nel concreto non è mai cambiato nulla.
Finché all’improvviso non ci è piombato addosso il Coronavirus, il lockdown e una delle più grandi crisi economiche degli ultimi cento anni.
Che questa pandemia abbia brutalmente messo in luce alcune delle criticità del sistema è evidente: la quarantena ha reso necessario un improvviso ripensamento della comunicazione e della fruizione delle collezioni. Coi musei chiusi non si poteva fare altro che coinvolgere il pubblico online, sui social, creando contenuti sul sito e proponendo visite virtuali alle raccolte digitali.
Ma se pensiamo che soltanto 4 musei italiani su 10 hanno un sito web, a malapena il 2% ha digitalizzato il proprio patrimonio e quasi la metà non è presente sui social, la questione diventa ancora più difficile*.
E non mancano solo gli strumenti: non c’è nemmeno nessuno che sappia utilizzarli. Infatti, mentre i laureati lavorano al supermercato, il personale in organico supera in media i 55 anni e si posiziona agli ultimi posti della classifica europea per le competenze digitali possedute.
In generale, i musei italiani non erano preparati ad organizzare la fruizione online: a parte alcune eccezioni particolarmente attive sul web (per dirne un paio, i Musei Vaticani e il MAXXI di Roma) si è assistito a un proliferare di iniziative in alcuni casi ben riuscite, in altri decisamente meno.
Ad ogni modo, dopo quasi tre mesi di chiusura e smartworking anche per i musei e gli istituti della cultura è arrivato il momento di riaprire. Alla data designata del 18 maggio il Ministero ha pubblicato le linee guida delle norme anti contagio per i musei (organizzare gli accessi contingentati, mantenere le distanze, posizionare i dispenser di soluzioni igienizzanti, rilevare la temperatura, pulizia e sanificazione giornaliera, ecc.), ma le riaperture sono state tutt’altro che omogenee.
Ora, dopo due mesi, il 30% dei musei è ancora chiuso del tutto. La maggior parte offre servizi e orari di apertura ridotta. E non si parla soltanto di piccole realtà. A Venezia e Firenze, città che vivono del turismo di massa, l’80% dei musei non ha ancora riaperto. Il Museo Egizio di Torino (quasi 1 milione di visitatori nel 2019) è attualmente accessibile soltanto tre giorni alla settimana e con servizi dimezzati. La Galleria degli Uffizi ha aperto i battenti soltanto qualche settimana fa.
Insomma, siamo decisamente lontani dall’essere tornati a regime.
Le motivazioni sono sempre le solite: gravissima carenza di fondi e di personale, con l’aggiunta del grosso aumento dei costi di gestione necessari per adottare le misure di sicurezza. Gli ingressi contingentati, la sanificazione giornaliera e tutte gli altri adempimenti richiedono una riorganizzazione interna e una serie di investimenti importanti, che non tutti si possono permettere.
A maggior ragione se i turisti poi non arrivano.
E così saltano i posti di lavoro di tantissimi operatori museali precari: guardasala, guide turistiche, addetti alla biglietteria. I più assunti con contratti a progetto o a collaborazione occasionale, quindi senza nessun diritto di cassa integrazione o altri aiuti. I rapporti di lavoro nella cultura durano spesso pochi mesi: alla scadenza, molti ne hanno approfittato per non rinnovarli.
È un problema serio che deve essere affrontato con disposizioni serie, e non andando al risparmio con investimenti ridicoli come si è sempre fatto. Addirittura qualche giorno fa al Ministero si proponeva di aprire i musei ancora chiusi sfruttando personale volontario: un’idea demenziale che sotterrerebbe del tutto la dignità e il rispetto verso i professionisti competenti che hanno perso il lavoro e che – se continua così – non potranno più averlo indietro.
Sicuramente le perdite si protrarranno ancora per mesi: considerando che mediamente circa la metà dei visitatori dei nostri musei è straniera, difficilmente si tornerà in tempi brevi ai numeri di prima.
Per far fronte alla mancanza di introiti nel Decreto Rilancio si è voluto istituire anche un Fondo cultura, ma più che di un vero investimento pare una sorta di tappabuchi che andrà a riempire i tagli degli scorsi anni.
C’è da sperare che le misure promesse diventino presto concretizzabili e che siano solo un primo tassello di una riforma del sistema, necessaria ora più che mai. Lo stato deve intervenire in fretta per sostenere i lavoratori di tutto il settore che dopo cinque mesi dall’inizio della pandemia sono ancora a casa o hanno perso il posto. E non basterà tornare come prima: bisogna dire basta a tutti i servizi appaltati a cooperative e associazioni che pagano i laureati nei musei 5,75 euro all’ora.
È urgente un riordino completo della legislazione che vada a sostituirsi a quella attuale, confusionaria e imbarazzante da tutti i punti di vista. Quasi trent’anni di volontariato e appalti hanno creato un quadro tragico. È ora di attuare il riconoscimento normativo delle professioni culturali e una manovra di assunzione degna di questo nome.
Nei musei statali, 1 posto su 3 è vuoto. In quasi tutti gli istituti di cultura molti servizi esistono soltanto grazie a studenti, neolaureati e amanti dell’arte che lavorano gratis.
È il momento di sfruttare questa fase di chiusura con un bel piano per ripartire.
Ma per davvero questa volta.