Se si chiedesse a dei bambini cosa faranno da grandi, tra astronauta e pompiere ce ne sarà sicuramente uno che dirà: farò l’archeologo. Nell’immaginario comune un moderno Indiana Jones, sempre pronto a incredibili avventure e scoperte sensazionali di antiche civiltà perdute, nel mondo reale è una professione altamente qualificata che richiede anni di studio e una cospicua dose di determinazione e fortuna.
Si, perché in Italia gli archeologi in attivo sono a malapena 5000: si calcola che più del 60% degli aspiranti alla fine abbandona l’ambizione per la frustrazione e la mancanza di lavoro.
Facendo un passo indietro, come si diventa archeologo?
Per iniziare, si consegue una laurea triennale in Beni culturali, Lettere classiche o Storia antica. Poi si prosegue con la laurea magistrale in archeologia: molte università offrono questo percorso, dalla più generica alla più particolare come quella di Archeologia Subacquea o Quaternario e Preistoria. A questo punto non si è ancora archeologi: bisogna proseguire necessariamente con il dottorato oppure fare una scuola di specializzazione di due anni. Tra esami e progetti di scavo è molto frequente impiegarci 9 o 10 anni, ma d’altro canto l’archeologo è una professione che richiede conoscenze approfondite e molta pratica.
Bisogna sicuramente avere una passione estrema, disponibilità a spostarsi spesso per cantieri in giro per l’Italia e a lavorare molte ore all’aperto con strumenti specialistici. Le attività che svolge l’archeologo non sono soltanto quelle di scavo, ma si occupa anche di catalogazione dei reperti, preparazione di progetti e soprintendenza dei cantieri, ricerca e pulizia dei materiali e tantissimo costante aggiornamento formativo. Le metodologie si rinnovano continuamente, pari pari con le nuove tecnologie: per restare sulla piazza bisogna essere sempre informati con le ultime novità.
Alla fine del percorso ci si trova davanti diverse opzioni: la prima è continuare con la carriera accademica, barcamenandosi tra assegni di ricerca e contratti di vario tipo. La seconda è aprire la partita Iva e proporsi ai committenti come lavoratore autonomo. La terza è cercare lavoro per cooperative o società che si occupano anche di scavo. In tutti i casi, sarà molto difficile farne un impiego stabile.
Tra gli ingenti tagli dei fondi e l’ormai nota piaga del volontariato, la sensazione è quella di continua mortificazione della professione, sebbene lavoro ce ne sarebbe per tutti. Sono tristemente conosciuti i casi dei siti archeologici italiani più o meno famosi, semi-abbandonati e portati all’incuria per mancanza dei fondi necessari. Ciò che è più sconcertante è che molto spesso sono gli enti e le università straniere che con grossi investimenti acquisiscono i diritti di scavo e fanno ricerca sui nostri siti: non è strano vedere professionisti internazionali operare sul nostro suolo, mentre tantissimi archeologi italiani sono a casa a mandare cv o a fare i camerieri. Per assurdo, sempre più spesso sono costretti a farsi assumere da enti ed università estere per riuscire poi a lavorare nei siti dietro casa.
Sconvolgente? Non troppo: finché l’ammontare dei nostri investimenti statali sarà ridicolo in confronto alle grosse cifre stanziate dalle singole università estere per tenere gli scavi a Pompei e a Roma, non c’è niente di cui stupirsi.
Tuttavia, una buona fetta dei professionisti trova lavoro nella capitale (si parla di circa il 20% degli archeologi italiani) perché c’è una legge che prevede la presenza di un archeologo per ogni cantiere, nel caso si incappi in un sito da tutelare. Le paghe non sono comunque alte: si viene retribuiti meno che degli operai, per un lavoro che presuppone quasi dieci anni di studio.
Rapportato agli anni di università e all’impegno che richiede, lo stipendio medio di un archeologo è infatti pietoso: secondo Linkiesta, 10.687 euro annui. Per fare un banale confronto, quello di un commesso generico è circa il doppio.
La colpa delle basse retribuzioni è da attribuire anche al mancato riconoscimento giuridico dell’archeologo: ad oggi non esiste un albo professionale, e capita di essere inquadrati anche come operai edili.
L’abuso del volontariato inoltre – realtà presente in tutto il settore della cultura, che si realizza tramite stage, tirocini, accordi con associazioni – affossa il mercato e abbassa i salari: perché pagare un professionista quando ci sono altri che offrono il proprio lavoro gratuitamente?
Un tentativo di riconoscimento professionale è stato attuato con la legge 110/2014, che è andata a istituire un elenco ministeriale degli archeologi. I decreti attuativi previsti (attesi nel 2015, ma pubblicati soltanto nel 2019) hanno finalmente reso possibile l’iscrizione all’elenco ministeriale per chi ha i requisiti.
Il suddetto elenco però “non costituisce un albo professionale e la mancata iscrizione allo stesso non preclude in alcun modo la possibilità di esercitare la professione.”
E quindi a che serve? La finalità dichiarata è quella di essere liberamente consultato e di riconoscere formalmente i professionisti dei beni culturali. Nel piano pratico insomma, a quasi nulla.
Al quadro complessivo non mancano nemmeno i soliti assurdi bandi del Ministero: qualche anno fa ne era uscito uno finalizzato all’assunzione a tempo determinato di 500 archeologi under 35, laureati con almeno 110/110 e in possesso della certificazione di inglese livello B2. Stipendio: poco più di 400 euro al mese.
In definitiva, per intraprendere un percorso formativo in archeologia serve tantissima passione e una buona dose di determinazione.
È triste vedere tanti professionisti abbandonare il loro sogno perché impossibilitati a farne un lavoro con cui vivere. Dopo aver investito anni di studio e fatica in un paese che avrebbe moltissimo da offrire in questo ambito, i più non vedono altra scelta che ripiegare su altro o scappare all’estero.
Il nostro patrimonio è importante, rappresenta il nostro passato e le radici della nostra cultura: eppure tantissimi siti sono abbandonati a loro stessi, per colpa di una classe politica che non li vede come risorsa.
Ugualmente importante è la dignità professionale di tanti giovani iper qualificati che vedendosi senza futuro sono costretti a ripiegare su altro perché lo stato non ritiene importante il loro lavoro.
Noi di Generazione Zero siamo convinti che dare visibilità a queste situazioni sia il primo passo per cambiare le cose.