E’ pensiero comune che iscriversi all’università e conseguire una laurea possa garantire un lavoro che soddisfi le nostre aspettative. Tuttavia, quando viene il momento di affacciarsi al mondo del lavoro molti laureati italiani rimangono delusi. Il riconoscimento professionale e la carriera tanto sognata dopo il percorso universitario si rivelano difficilmente raggiungibili in tempi brevi.
Un indagine di Eurostat evidenzia che nel nostro paese 4 laureati su 10 non hanno un lavoro dopo 3 anni dal conseguimento del titolo, mentre il 35% è occupato in un settore diverso da quello per cui ha studiato. Inoltre, il salario medio di un laureato è di poco superiore a quello di un diplomato: la maggiorazione è ridicola confrontata ad altri paesi europei in cui le competenze di alto livello sono più apprezzate. Uno scenario che potrebbe scoraggiare qualsiasi studente che pensi ad iscriversi all’università.
Gli under 35 italiani detengono anche un altro triste primato: 2 su 3 vivono ancora con i genitori. D’altronde, il mercato del lavoro attuale rende inevitabile lo slittamento dell’indipendenza economica. Nella maggioranza dei casi, il primo contratto di lavoro “vero” arriva ben oltre la fatidica soglia dei 25 anni. Ma allora come fare ad andare via di casa, se per un contratto d’affitto tra le fantomatiche referenze è richiesto un lavoro a tempo indeterminato?
È sempre più frequente che dopo decine di curriculum inviati, colloqui inutili e stage e contratti sottopagati senza prospettive si decida di mollare tutto e di cercarsi un lavoro qualunque pur di potersi mantenere. Si parla dei cosiddetti lavori “umili” che non richiedono particolari qualifiche: operai, camerieri, segretari, operatori delle pulizie, cassieri, postini, eccetera.
Nella teoria, tutte cose che un laureato saprebbe svolgere perfettamente, alla pari di chi ha un titolo professionale più basso. Nella pratica, presentare un curriculum con un titolo elevato per un lavoro che non la richiede in Italia sembra produrre l’effetto opposto: le candidature vengono guardate con ostilità e sospetto e cestinate perché giudicate non pertinenti.
I datori di lavoro e i recruiter sembrano restii a considerare personale con un titolo di studio superiore a quello necessario: invece di vedere nel percorso universitario un arricchimento per l’azienda, avere competenze in più risulta in molti casi addirittura un problema.
Molti laureati vengono scartati alle selezioni perché giudicati “troppo qualificati”, perché non ci si può permettere di pagare uno stipendio commisurato al loro titolo, oppure perché percepiti più ambiziosi rispetto ai colleghi col diploma. E nelle piccole aziende dove non c’è possibilità di carriera, ambizioso significa temporaneo, inaffidabile.
E cosa succede se poi trovi qualcosa di meglio o più inerente agli studi fatti? Per chi cerca risorse stabili, questa è certamente una delle paure più grandi. Ma perché questa domanda non viene mai fatta ai diplomati, ma solo a chi ha una formazione più elevata? Eppure le opportunità migliori capitano a tutti e cambiare lavoro è un sacrosanto diritto.
Ed ecco che la soluzione di costruire un curriculum ad hoc per questo tipo di lavori – togliendo la laurea, i master e la formazione terziaria – sta diventando uno stratagemma comune. La cosa triste è che risulta anche efficace. Ci si finge una persona umile e con poche pretese, al costo di creare inspiegabili buchi nel CV. Insomma sembra che omettere quel titolo preso con tanto impegno e motivo di orgoglio per la famiglia sia l’unica via per trovare un lavoro che faccia pagare le bollette.
Eppure, nel nostro paese una laurea ce l’hanno davvero in pochi. Secondo le ultime statistiche, soltanto il 28% dei giovani tra i 25 e i 34 anni (la media europea è 44%). Quindi pochissimi laureati, che per di più non trovano lavoro. Un paradosso apparentemente inspiegabile.
La colpa invece è imputabile a diversi fattori: il tessuto produttivo italiano, costituito di piccole imprese poco inclini all’innovazione, il ritardo digitale, la bassissima presenza di laureati ai vertici delle aziende, la percezione culturale radicata che non si può avere un lavoro inferiore alle proprie qualifiche, come se i laureati volessero diventare tutti manager o professori.
Un ruolo centrale è da attribuire alla bassa scolarizzazione: il nostro paese detiene il record in Europa per il numero di lavoratori con soltanto la licenza media: ben 1 su 3 secondo Eurostat. E se si prendono in considerazione soltanto i lavoratori ai vertici delle aziende, in Italia solo il 25% ha una laurea (la media europea è il 58%). E’ chiaro che un datore di lavoro con una formazione bassa è poco propenso ad assumere sottoposti con titoli più alti.
A complicare la situazione già intricata ci si mette anche lo “skills mismatch”: il divario tra le competenze possedute dei lavoratori e quelle richieste dalle imprese. Nel nostro paese questa discrepanza è molto elevata: per il mercato mancano tantissimi laureati STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), mentre ce ne sono troppi in materie umanistiche. O almeno, troppi per le misere possibilità lavorative e la scarsa valorizzazione che offre l’Italia ai percorsi come Storia dell’arte o Comunicazione. Le materie letterarie dotano di utili soft skills, ma i piani di studio universitari sono uguali da anni e non riescono ad andare incontro alle esigenze del mercato, ad esempio fornendo competenze informatiche o linguistiche.
Tutto questo porta all’assurda situazione che vede da un lato i giovani che non trovano lavoro, e dall’altro le aziende che hanno migliaia di posti vuoti.
È un problema molto ampio che richiederebbe una riforma strutturale importante e su più fronti.
Noi di Generazione Zero siamo convinti che fare sensibilizzazione su questi temi sia il primo passo per cambiare le cose.
Se non siamo noi giovani a batterci per il nostro futuro, nessuno lo farà.
*Tutti i dati sono di Eurostat